
Luca Zaia non parla, non rompe, ma nemmeno applaude. Sorride (sempre di meno) e dribbla le domande su una possibile uscita dalla Lega, lasciando intendere che qualcosa, nel partito di Matteo Salvini, si è definitivamente incrinato.
Il governatore del Veneto, ancora oggi il presidente di Regione più amato d’Italia, non ha intenzione di strappare pubblicamente. Ma i segnali di insofferenza si moltiplicano, e nel silenzio controllato del Doge molti leggono una strategia di logoramento lenta ma costante.
Il punto di rottura, raccontano fonti vicine a palazzo Balbi, è arrivato con la gestione delle candidature per le regionali del 23 e 24 novembre. A Zaia era stato fatto intendere che il suo nome sarebbe comparso sul simbolo del partito, un gesto simbolico di riconoscimento e appartenenza dopo il veto alla sua lista personale. Ma la promessa è svanita. E il malumore è cresciuto.
Roma teme l’ombra del Doge
“È stato un accordo al ribasso”, dicono nel suo entourage, convinti che a Roma qualcuno abbia voluto tenere basso il profilo di Zaia, temendo che la sua ombra si allungasse troppo sulla campagna elettorale. A via Bellerio, la versione viene respinta con fastidio. Ma il sospetto, diffuso in Veneto, è che Salvini e Meloni preferiscano evitare di misurarsi con la popolarità di un leader più trasversale del partito stesso.
Zaia, intanto, mantiene la sua postura: non lascia, ma non raddoppia. Ha garantito pieno sostegno al candidato del centrodestra Alberto Stefani, segretario della Liga Veneta, con cui esiste una stima reale. Ma la sua candidatura diretta come capolista in tutte le province, ancora incerta, sarebbe il segnale di una mobilitazione autentica. Per ora la parola d’ordine resta una: prudenza.

La frattura interna e l’eredità salviniana
Ufficialmente, i rapporti con Palazzo Chigi restano buoni. “Rispetto e dialogo”, assicurano i suoi. Ma il problema è tutto interno alla Lega. La gestione verticistica, la comunicazione urlata e la scelta di candidare Roberto Vannacci in Toscana, con il partito sceso sotto il 4,5%, hanno lasciato cicatrici profonde. “Speriamo che qualcuno capisca che così non si va avanti“, sussurrano i parlamentari veneti.
Zaia non ha mai nascosto il suo scetticismo verso la deriva personalista e mediatica del partito, ormai lontano dalle sue radici autonomiste e amministrative. “Non c’è più ascolto. Si calano decisioni dall’alto come negli anni ’90”, protesta un amministratore trevigiano. Al Nord-Est, intanto, si torna a rimpiangere l’era Bossi.
Il capitale politico di Zaia
Eppure il Doge resta dove è sempre stato: in equilibrio. Non fonda un nuovo partito, non minaccia scissioni. Ma accumula capitale politico personale, in attesa che le acque si calmino o che i consensi tornino a salire. Le voci che lo danno interessato a una transizione nazionale dopo il 2025 non sono infondate.
Perché la Lega, oggi, non è più casa sua. È un partito svuotato, ricostruito attorno a un leader e a una comunicazione muscolare che al Nord convince sempre meno. E Zaia, con il suo stile misurato e la sua popolarità in costante crescita, resta l’unico capace di parlare “alla pancia del Nord senza urlare”.
Se alle regionali arriverà un nuovo tonfo, il dossier “rinnovamento” tornerà inevitabilmente sul tavolo. E allora, il “sor tentenna” del Veneto potrebbe diventare il fulcro del dopo-Salvini. Per ora osserva, ascolta e prende nota. Ma la sua voce, prima o poi, si farà sentire.