
La crisi diplomatica di queste ore, legata alla mancata restituzione dei corpi degli ostaggi israeliani da parte di Hamas, ha riaperto una ferita profonda nella società israeliana. Non si tratta solo di una questione umanitaria o politica: è una questione religiosa e identitaria. Nel giudaismo, infatti, la sepoltura del corpo è uno dei comandamenti più sacri, un atto che tocca il cuore della relazione fra l’uomo, Dio e la comunità dei vivi.
Il valore sacro del corpo
Nella tradizione ebraica, il corpo umano non è un semplice involucro, ma parte integrante della creazione divina. È stato plasmato da Dio stesso (“polvere sei e in polvere tornerai”) e deve perciò essere trattato con rispetto assoluto anche dopo la morte. Non è casuale che nel mondo ebraico non esista la cremazione, considerata una violazione della sacralità del corpo: distruggerlo significherebbe negare la sua origine divina e la promessa della resurrezione dei morti, credenza centrale nell’escatologia ebraica.
Il rito della sepoltura (kevurat hamet) rappresenta quindi un atto di pietà suprema, una “mitzvah” — un dovere religioso — che non può essere delegato né ritardato. L’anima, secondo la tradizione, non trova pace finché il corpo non è stato sepolto nella terra, da cui è stato tratto. Per questo, lasciare un cadavere insepolto è considerato una delle più gravi offese che si possano compiere contro un essere umano.
La pace dei morti come fondamento della comunità
Ogni funerale ebraico è un gesto comunitario. Non è soltanto la famiglia a piangere, ma l’intero popolo. L’obbligo di seppellire anche il nemico caduto — seppur dopo la battaglia — è sancito nella Torah, nel Deuteronomio, dove si legge: “Non lascerai il suo corpo appeso all’albero per tutta la notte; lo seppellirai nello stesso giorno”. È un principio di dignità universale, che precede e supera la logica della vendetta.
Ecco perché la restituzione dei corpi degli ostaggi da parte di Hamas assume, in Israele, un valore morale assoluto. Non si tratta soltanto di un gesto di umanità verso le famiglie, ma di un imperativo religioso che riguarda la stessa identità collettiva del popolo ebraico. Finché quei corpi restano prigionieri sotto terra a Gaza, anche la comunità rimane sospesa, incompiuta, privata del diritto alla chiusura del lutto.
Il trauma della sepoltura negata
Nel linguaggio ebraico esiste una parola che racchiude questo dolore: “agetz”, lo strazio del corpo insepolto, il tormento di non poter compiere l’ultimo gesto d’amore verso chi è stato perduto. È un concetto che attraversa secoli di persecuzioni e di guerre, e che ritorna oggi, con forza drammatica, nelle parole dei rabbini e dei familiari che chiedono a gran voce il ritorno dei loro cari, anche solo per dare loro una tomba.
La mancata restituzione dei corpi non è dunque solo un crimine contro la pietà, ma una forma di violenza simbolica che priva l’altro della propria umanità. Per Israele, ogni corpo trattenuto è un’anima in ostaggio, un pezzo di storia che non può chiudersi.
Ecco perché, in queste ore, la tensione non è solo diplomatica ma spirituale. Per la religione ebraica, seppellire i morti significa riconoscere la vita. È la linea sottile che separa la civiltà dalla barbarie.