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Coloni israeliani ad Al-Aqsa, nuova scintilla nel cuore di Gerusalemme

Pubblicato: 04/11/2025 19:45

Il complesso della moschea di Al-Aqsa è tornato al centro della tensione internazionale dopo l’irruzione di 465 coloni israeliani, entrati questa mattina nei cortili del terzo luogo più sacro dell’Islam a Gerusalemme Est sotto la protezione della polizia israeliana. A riportarlo è l’agenzia palestinese Wafa, secondo cui i gruppi di coloni hanno attraversato l’area in più ondate, eseguendo rituali talmudici e impedendo l’accesso regolare ai fedeli musulmani. La scena è diventata ormai familiare: ingressi autorizzati, forze armate schierate, comunità palestinese esclusa o respinta verso le porte esterne, mentre i coloni, accompagnati da guide religiose e attivisti politici, compiono quello che per loro rappresenta un atto di presenza identitaria e religiosa.

Il governatorato di Gerusalemme parla apertamente di “visite provocatorie”, accuse che non riguardano solo il gesto in sé ma il progetto politico che lo sostiene. Per Israele si tratta di ingressi consentiti dalla legge, perché la Spianata ricade sotto la sua sovranità dal 1967. Per i palestinesi, invece, ogni incursione è una violazione dello status quo che regola la gestione dei luoghi santi e che affida al Waqf giordano l’amministrazione religiosa del sito, limitando l’accesso ebraico alla sola visita turistica, non alla preghiera.

Il ruolo dei coloni

Dietro queste azioni c’è la rete organizzata dei coloni israeliani, un movimento che non agisce in modo sporadico ma con una precisa strategia politica, sostenuta da esponenti della destra religiosa e nazionalista al governo. Entrare ad Al-Aqsa significa contestare apertamente lo status quo e ribadire la tesi secondo cui il Monte del Tempio è un luogo ebraico “occupato” dall’Islam. Alcuni leader del movimento annunciano da anni l’obiettivo di introdurre la preghiera ebraica stabile nella Spianata, passo preliminare – secondo la loro narrativa – alla futura costruzione di un nuovo Tempio. Per i palestinesi, questa è la prova più evidente che non si tratta di devozione ma di un piano progressivo di “giudaizzazione” di Gerusalemme Est.

Il sostegno statale, tramite la presenza armata della polizia, trasforma un gesto religioso in un atto politico e militare. La protezione delle irruzioni non solo consente lo svolgimento dei rituali, ma impedisce ai musulmani l’accesso alla moschea in determinati orari, alimentando la percezione che lo Stato favorisca una parte a discapito dell’altra. In questo modo la Spianata diventa laboratorio di sovranità: chi entra, chi prega, chi viene allontanato, chi stabilisce le regole.

Perché è una provocazione

La moschea di Al-Aqsa è simbolo identitario, religioso e nazionale per i palestinesi. Ogni incursione viene percepita come un attacco diretto alla loro storia e alla loro presenza a Gerusalemme Est, riconosciuta dal diritto internazionale come territorio occupato. La forzatura dello status quo è considerata una linea rossa che, se superata, può far detonare un’escalation non solo locale ma regionale: è già successo nel 2000, nel 2021, e più volte negli ultimi mesi, quando simili azioni hanno preceduto scontri, proteste, lanci di razzi da Gaza o operazioni militari israeliane.

Per gli analisti, ogni assalto dei coloni è anche un test: misura la reazione della popolazione palestinese, la postura dei Paesi arabi e il livello di tolleranza della comunità internazionale. Da parte israeliana si insiste sul diritto di “visita” al Monte del Tempio, ma nel mondo arabo e musulmano le incursioni sono lette come violazioni dei luoghi santi, oltre che del quadro politico definito dopo il 1967. Il risultato è una tensione costante, alimentata da simboli, forze armate e narrazioni contrapposte.

Il gesto di oggi non è un episodio isolato: è una scheggia di quello scontro a lungo termine tra sovranità, fede e memoria che fa di Gerusalemme la città più fragile del mondo. Ogni passo dentro Al-Aqsa diventa miccia, messaggio, linea del fronte.

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