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Dollaro: come il Covid ha cambiato faccia alla valuta americana

Pubblicato: 23/09/2020 16:00

Da “super” valuta a moneta “debole”. Si potrebbe riassumere così l’andamento del dollaro statunitense dall’inizio dalla crisi pandemica ad oggi, con il greenback che dopo aver messo a segno un rally del 9% agli inizi del lockdown, ha registrato la peggior performance mensile in 10 anni solo pochi mesi dopo. Ma andiamo con ordine.

Ad inizio marzo, quando il mondo si è trovato per la prima volta di fronte all’epidemia da Covid e con i mercati finanziari appena usciti dalla peggior settimana dalla crisi finanziaria del 2008, il bisogno ‘disperato’ di flussi di denaro utili per mantenere in vita le attività e la ricerca degli investitori di uno strumento in grado di resistere ad un terremoto storico trovano un amico comune: il dollaro. Oltre ai timori per lo scoppio della pandemia e la continua salita della curva dei contagi, il mercato comincia a guardare verso gli effetti del lockdown sulle diverse economie, che da li a pochi mesi avrebbero incontrato crolli in molti casi simili a quelli osservati dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Come osservato in quei giorni da Ricardo Evangelista, analista senior di ActivTrades, “il comportamento in qualche modo controintuitivo della valuta americana – in rialzo quando le condizioni economiche del paese deteriorano – celebra lo status del dollaro come bene rifugio, ricercato dagli investitori durante i periodi di declino economico, anche quando tale declino si verifica proprio negli Stati Uniti”. Sia negli Stati Uniti che in Europa, tutti gli occhi sono rivolti alle risposte che le istituzioni, monetarie e politiche, possono dare per cercare di arginare un crack di questa portata: le banche centrali approvano piani di acquisti obbligazionari senza precedenti, con la Federal Reserve che taglia i tassi d’interesse per ben due volte di seguito, mentre nelle sedi politiche si discute degli imponenti pacchetti fiscali per l’economia reale.

La banca guidata da Jerome Powell, inoltre, si è mossa per abbassare il costo del prestito attraverso le ‘swap line’, istituite con le banche centrali di Giappone, Europa, Regno Unito, Canada e Svizzera ed utilizzate già nella Grande Recessione del 2008. L’apertura di queste linee di cambio permette un accesso a basso costo al dollaro in cambio delle rispettive valute. Ma nonostante gli interventi della banca centrale, il Dollar Index – indice che misura il valore del greenback in relazione ad un paniere di valute quali euro, yen, sterlina, dollaro canadese, corona svedese e franco svizzero – tocca un valore di 102,99 il 19 marzo rimbalzando dai 94,9 di circa 10 giorni prima.

Poi dalla seconda metà di marzo le cose iniziano a cambiare

Per avere un’idea dei livelli raggiunti, basti pensare che nello stesso giorno la coppia euro/dollaro veniva scambiata a 1,0691, mentre il crossrate veniva prezzato in area 1,14 solo pochi giorni prima. Poi dalla seconda metà di marzo le cose iniziano a cambiare. La risposta degli Stati Uniti contro la crisi in atto si fa più lenta rispetto alle azioni messe in atto dall’Unione Europea, e l’indice del dollaro scivola sotto i 100 con gli investitori che cominciano ad avere più posizioni in euro nei loro portafogli. Altre asset class emergono come “più sicure” rispetto al biglietto verde, e i massicci interventi delle banche centrali iniziano a supportare i rimbalzi delle equities avviando lo S&P 500 verso i nuovi record del mese di agosto e allontanando la ricerca di strumenti denominati in dollari USA. Il clima d’incertezza sui mercati globali porta poi ad una buona ripresa dell’oro, il bene rifugio per eccellenza, che dal record in 7 anni inanellato nella metà di aprile, arriva ai massimi storici oltre i 2.000 dollari all’oncia, a discapito di un dollaro che mostra i primi segnali di debolezza.

Lingotto d'oro su banconote dollari
Lingotto d’oro su banconote dollari (Fonte: shutterstock)

Per fare un breve cenno tecnico, il lingotto e la valuta statunitense sono legate dal cosiddetto indice di correlazione inversa che, dopo gli accordi di Bretton Woods nel 1971, porta un bene ad registrare trend positivo quando il sentiment verso l’altro strumento viene meno. Questo avviene perché essendo il metallo prezioso quotato in dollari, tende a beneficiare delle fasi in cui il biglietto verde si svaluta e, viceversa. La stessa dinamica interessa il petrolio e tutti gli strumenti finanziari con una quotazione in valuta americana. Più ‘effettivo’ della correlazione con il dollaro è quella tra oro e tassi reali, ed in questo caso con i titoli di Stato degli Stati Uniti. Quando i tassi salgono il prezzo dell’oro ne risente in negativo, e il contrario.

Il Treasury note, il titolo a dieci anni americano, è sceso sotto lo 0,7% già da maggio a seguito delle politiche espansive della Fed, supportando la corsa dell’oro e, conseguentemente, facendo da tetto ai tentativi di ripresa del dollaro.

C’è un evento che ha inferto un ulteriore colpo alla valuta statunitense

Durante l’ultimo simposio di Jackson Hole – evento annuale organizzato dalla Fed al quale partecipano tutti i principali banchieri del mondo – il governatore Jerome Powell ha annunciato una storica revisione della politica monetaria permettendo, di fatto, un inflazione maggiore e tassi bassi per “molto tempo” per arrivare al pieno di recupero dell’economia.

Più in particolare, la strategia della banca centrale assume ora una “forma flessibile dell’obiettivo medio di inflazione” nel tentativo di sostenere il mercato del lavoro, il che significa che l’inflazione può rimanere al di sopra dell’obiettivo del 2,0% “per un po’ di tempo” prima che la Fed possa di nuovo aumentare le leve sui Fed funds. In altre parole, I tassi ‘lower for longer’, paragonabili per importanza al “whatever it takes” di Mario Draghi, spostano l’obiettivo della Fed verso il mercato del lavoro a discapito di un’inflazione più alta.

Facciata Federal Reserve USA
Facciata Federal Reserve USA (Fonte: shutterstock)

Secondo Antonio Cesarano, Chief Global Strategist di Intermonte SIM, “il discorso di Powell ha esplicitato ufficialmente l’atteso cambio di forward guidance, rendendo noto che c’è stata un’apposita riunione ad hoc della Fed che, all’unanimità, ha approvato la modifica del framework di politica monetaria, la cui ultima versione risale al 2012, l’anno in cui la Fed esplicitò il suo target di inflazione al 2%”.

“I cambiamenti apportati – prosegue Cesarano – sono di fatto due: tollerare un livello di occupazione al di sopra del massimo livello, e portare il target di inflazione dal valore puntuale del 2% al valore medio del 2% nel tempo. Powell ha poi argomentato lungamente sulle ragioni di questo cambiamento che spaziano dall’andamento demografico, i miglioramenti tecnologici fino all’evidenza dell’appiattimento della curva di Phillips”.

Gli effetti sulla valuta statunitense sono stati, per ora, ribassati nonostante un obiettivo maggiore d’inflazione. Da settembre, anche ‘per colpa’ della linea attendista della BCE evidenziata nella scorsa riunione, l’indice ha oscillato tra i 92,7 e i 93,4 con prospettive che, secondo molti analisti, non appaiono rosee e che potrebbero mettere a rischio lo status di safe asset della valuta statunitense anche nel lungo termine,

Lisa Shalett, Chief Investment Officer della divisione Wealth Management di Morgan Stanley, osservando il -8% del dollaro dallo scorso 24 luglio, pone l’accento sulla ‘monetary supply’ del dollaro, o offerta monetaria.

“L’allentamento monetario della Federal Reserve e l’espansione fiscale degli Stati Uniti sono stati senza precedenti, a seguito dell’improvviso arresto della contrazione economica causata dalla pandemia, e la rapida espansione del debito e del deficit può svalutare il dollaro nel lungo periodo e portare ad una risalita dell’inflazione”, spiega Shalett.

Anche le dinamiche commerciali e geopolitiche giocano un ruolo di primo piano nell’andamento valutario. “Dopo cinque anni di miglioramento, il disavanzo delle partite correnti degli Stati Uniti, che misura di più le importazioni statunitensi di quante ne esporti, sta crescendo e potrebbe avvicinarsi al 4% del PIL entro il prossimo anno e allo stesso tempo, le tensioni geopolitiche stanno aumentando, con la leadership globale degli Stati Uniti che è diminuita, mentre la posizione economica della Cina continua a crescere”.

Secondo la CIO, questa dinamica potrebbe indurre le banche centrali “a ristrutturare le proprie riserve monetarie, vendendo le posizioni in dollari e potenzialmente acquistando renminbi contribuendo a un dollaro più debole”.

Inoltre, data “l’improvvisa fine dell’ultimo ciclo economico caratterizzato da un dollaro forte”, e la profondità dell’attuale recessione negli Stati Uniti, “la debolezza del dollaro non è sorprendente”, con ‘l’ex valuta rifugio’ che potrebbe quindi rimanere in correzione ribassita nel lungo periodo.

Come proteggere il proprio portafoglio quindi? Per la CIO di Morgan Stanley gli investitori possono abbassare il rischio del portafoglio con commodities, azioni internazionali e asset dei mercati emergenti.