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La direttrice Beatrice Venezi fa il direttore in un mondo che non esiste più

Pubblicato: 15/03/2021 08:37

Anche se il Festival di Sanremo è terminato da un po’, la questione dei femminili di professione non si è esaurita di certo con la fine di questa kermesse. Se ne parlerà ancora per molto del fatto se sia giusto o no declinare alcune professioni al femminile quando queste vengono esercitate da una donna.

Ne ho già parlato in passato, lo so, ma ci tengo fortemente a riprendere la questione in mano, per fare chiarezza e per demolire le tesi che si sono succedute in questi giorni, alcune delle quali davvero strampalate, sostenute sia da oppositori sia da oppositrici.

Beatrice Venezi: un direttore o una direttrice d’orchestra al Festival di Sanremo

Ripercorriamo brevemente i fatti. Il direttore d’orchestra Beatrice Venezi (per me resta comunque direttrice d’orchestra), nel corso della quarta serata del Festival di Sanremo, ha dichiarato di preferire la forma direttore a direttrice, perché nel suo mondo “funziona così”, «la mia posizione ha un nome preciso, ed è direttore d’orchestra». Tra le tre forme possibili che il direttore avrebbe potuto scegliere (direttore, direttrice, direttora) ha optato per quella più tradizionalista.

La stessa di Riccardo Muti, un uomo. Non mi aspettavo un rivoluzionario (nemmeno troppo) direttora, per carità, ma almeno un normalissimo direttrice, sì. Anche perché direttrice è un termine ormai di largo uso, si adopera in molti campi e non solo all’interno degli istituti scolastici (direttrice di giornale; direttrice di museo; direttrice d’azienda…). Abbiamo perso una grandissima occasione, bisogna dirlo, e brucia proprio per questo, visto che quelle parole non sono state pronunciate nel baretto sotto casa, ma da un palco come quello di Sanremo.

Non è solo un problema linguistico, le donne sono mosche bianche

In realtà, diciamoci la verità, il problema non è linguistico, anche perché ognuno ha il legittimo diritto di farsi chiamare come vuole, ma è un fatto culturale, e il direttore lo sa benissimo: si preferisce il maschile perché si crede che valga di più, che abbia un peso diverso, che sia più prestigioso. E si è sempre usato il maschile, e il direttore sa meglio di me anche questo, proprio perché quel ruolo nella stragrande maggioranza dei casi è stato sempre ricoperto da uomini e le donne sono sempre state delle mosche bianche. Una tesi l’abbiamo smentita.

Sono davvero nuove formazioni? Il problema dei femminili di professione è un’invenzione degli ultimi cinque o dieci anni da parte di qualche femminista o politica di sinistra? No, per niente.

Siamo noi che non li usiamo e li teniamo in cantina, ma i femminili esistono e vengono riportati da qualsiasi vocabolario online (digitare per credere). La sociolinguista Vera Gheno, nel suo libro “Femminili singolari”, asserisce che lo Zingarelli ha iniziato a registrare i femminili professionali dagli anni Novanta. E Alma Sabatini, scrittrice e saggista, ne Il sessismo nella lingua italiana, curato per La Presidenza del Consiglio dei Ministri per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, parla di forme come architetta, avvocata, medica e (la) poeta. È uno scritto che risale agli anni Ottanta (1987).

E con parole come pediatra, farmacista, pilota, come facciamo? Diventano *pediatro, *farmacisto e *piloto? Nella nostra lingua esistono i sostantivi di genere comune, che possono essere usati per indicare sia un soggetto maschile sia un soggetto femminile, in questo caso basta cambiare l’articolo: il pediatra / la pediatra; la farmacista / il farmacista; il pilota / la pilota; la cantante / il cantante…

I benaltristi: i problemi sono ben altri. E invece no! Sono questi

L’ultima parte di questo articolo la dedico a una delle categorie di utenti social più fastidiosa: i benaltristi.
I problemi sono ben altri!
Certo, se dovessimo stilare una classifica delle cose che veramente contano nella vita, non ci sarebbe spazio non solo per i femminili professionali, ma neanche per milioni di altre cose che facciamo ogni giorno e a cui teniamo, social inclusi. La morte, la salute e la malattia, ad esempio, vincerebbero a mani basse contro qualsiasi sfidante.

Si troverà sempre una cosa più importante di un’altra. E poi non è vero che sono questioni di poco conto, il linguaggio in questo caso è l’anticamera della parità, si parte sempre da lì, per poi arrivare alle cose più “importanti”: parità di diritti, parità di salario, eguali possibilità lavorative, ecc. La lingua non solo può dare vita ai nostri pensieri, ma crea la realtà in cui viviamo. Anche perché, ricordiamolo, tutto ciò che non ha un nome e che non si nomina, non esiste.