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Messico e nuvole: il nearshoring Usa anti-Cina. Cartelli permettendo

Pubblicato: 08/11/2021 11:49

Accorciare la catena, differenziare i partners di filiera, rilocalizzare ed insediare servizi e parte della produzione nel cortile di casa: questi alcuni antidoti alla crisi della statunitense supply chain, attività, persone, organizzazioni, risorse, informazioni, condotte a sistema per trasferire/fornire prodotti/servizi dal fornitore al cliente, rimedi individuati dalla Casa Bianca per affrontare una patologica inefficienza che, in verità, ha carattere pandemico e sta avvolgendo la comunità mondiale.

Per l’Amministrazione Joe Biden, dunque, la cura sarebbe riassumibile in un processo: il nearshoring, ovvero la scelta di uno o diversi operatori in outsourcing, vicini – e meglio se confinanti – a stati più prossimi all’azienda produttrice.

La situazione? Estremamente delicata. Scenario parabellico, sottilmente feroce, in un quadro regolatore labile, incatenato a pesi/contrappesi geopolitici globali. Vicende tenute sottotraccia nello story telling dei dirimpettai atlantici, addirittura intraducibili nell’edulcorante monotòno del dibattito italiano, tutti attori immersi – è bene ribadirlo – nell’identico pantano.

Il super alleato a Stelle e Strisce è in grande difficoltà, e con esso quell’Occidente vittima della stessa dilatazione globale che ha generato e che, adesso, subisce il contrarsi della molla.

Cercare dunque soluzioni, soprattutto luoghi.

Tra tanti, gli Usa ne masticano uno: il Messico, l’house garden.

Il Messico è come Taiwan?

Il disegno è denso d’incognite. Vien da chiedersi: potrà il tappo meridionale dei confini Usa rivestire il ruolo? La fisionomia socioeconomica messicana sarà all’altezza? A quanto ammonta il suo assetto di sistema? Vale più o meno di quello della lontana Taiwan, minuscola repubblica semipresidenziale per cui Joe Biden – comandante in capo delle identiche forze armate recentemente in rotta in quel di Kabul – promette di dissotterrare l’appena sepolta ascia di guerra per contrastare le mire di Pechino sull’isola (isola che, come noto, assicura la quasi totalità produttiva di semiconduttori del mercato mondiale)?

Presi un paio d’indicatori al volo, la convenienza pare assicurata. In America Latina, l’economia del Messico – principale importatore dell’area – è seconda solo al Brasile. Il Global Wage Report 2020–21, redatto dall’International Labour Office di Ginevra (ILO, 2020), indica inoltre che in terra messicana una giornata di lavoro quota un salario minimo di 102,68 Mex$ (pesos messicani), cioè 5.09 US$ (dollari statunitensi). Per meglio focalizzare le misure, nelle Americhe la media del salario minimo mensile si attesta su 668 US$, con valori che segnano il down in 289 US$ in Messico e l’up in 1.612 US$ in Canada. Qui, come negli Stati Uniti, vigono i salari minimi più alti, mentre in Messico, Haiti, Giamaica, i più bassi.

House garden e just in time nel rapporto White House

Tali condizioni possono incoraggiare, non v’è dubbio, ma la Casa Bianca avrebbe deciso in base all’impellenza primaria: puntare sul giardino di casa.

Non a caso, se si tratta della vasta necessità di celle per la richiesta di veicoli elettrici, le sue deduzioni vanno dritte al punto: “L’importante peso delle celle e la loro classificazione come materiali pericolosi rende il trasporto costoso”. Per questo vanno colti i benefici che possono scaturire dalla localizzazione di diverse fasi della catena di approvvigionamento, avvicinandola alla realizzazione del prodotto finale. “Inoltre, la produzione automobilistica dipende fortemente dalla consegna just in time, che mira a ridurre i costi d’inventario e favorisce continui miglioramenti della qualità”. Quindi: “I requisiti di contenuto previsti dagli accordi commerciali, come l’accordo Stati Uniti-Messico-Canada (USMCA – US, Mexico, Canada Agreement), offrono ulteriori incentivi per localizzare la produzione di batterie”.

Tutto nero su bianco, in un rapporto pubblicato dalla White House. Il titolo? “Building Resilient Supply Chains, Revitalizing American Manufacturing, and Fostering Broad–Based Groth: 100-Day Reviews under Executive Order 14017 June 2021”, documentone di 250 pagine, con tanto di revisioni dei dipartimenti del Commercio, Energia, Difesa, Salute, Servizi Umani (N.B.: soffermarsi sulla profilazione che scaturisce dal connubio d’identità qui messe all’opera sarebbe istruttivo, per alleati ed antagonisti).

La data di pubblicazione del lavoro, del resto, indica nel merito la stagionata consapevolezza da parte dell’Amministrazione Biden sullo stato di crisi che avanza a briglie sciolte. Qualcosa che, già con il primo dilagare dell’emergenza sanitaria Covid-19, ha iniziato a trillare freneticamente nello Studio Ovale, scampanellio sensibile alle lusinghe dell’epidemia ma, meglio, agli slittamenti geostrategici da questa amplificati.

Fallita l’Exporting Democracy Strategy

Gli Stati Uniti, insomma, non minimizzano. Dopo il precipitoso ritiro dal fronte afghano – e la conseguente disfatta militare, tragico epilogo narrato in generica modalità Exporting Democracy Strategy – l’Amministrazione Biden mira adesso a contrattaccare l’asfissiante incremento del tasso di anemia produttiva e commerciale. Tasso in crescita, indotto da un sempre più sbilanciato rapporto import/export–domanda/offerta.

L’emergenza approvvigionamento è l’emorragia. Inevitabile essa dilaghi in gran parte delle società occidentali, strutturate dentro gabbie consumistiche. Qui, però, è la regina indiscussa del libero mercato ad entrare in crisi; ed è bastata la ripresa autunnale per condurre i nodi al pettine, al punto da registrarne gli esiti ben oltre le scrivanie degli addetti ai lavori, complice il rinnovarsi della corsa agli acquisti post Covid Emergency.

Ingorghi supply chain, sindacati cost to cost e codice 24/7

È tra settembre e ottobre, infatti, che affiora minacciosamente nel Pacifico la punta dell’iceberg, con gli hub portuali di Los Angeles e Long Beach – porte d’ingresso di almeno il 40% delle merci importate negli USA – ingolfati da una massa abnorme di containers. La questione schiude addirittura uno scontro interno ai portuali statunitensi. Così Harold Daggett, presidente dell’ILA (International Longshoremen’s Association), potente sindacato dei portuali della Costa Orientale, non le manda a dire. “Mentre i media nazionali continuano a caratterizzare erroneamente problemi con le catene di approvvigionamento americane e mondiali – avverte ad inizio ottobre – i membri dell’ILA che lavorano nei porti, dal Maine al Texas, continuano a brillare come eroi della prima linea americana, muovendo rapidamente le merci dentro e fuori il porto, nonostante l’uso improprio da parte degli spedizionieri dello spazio del terminal come aree di stoccaggio”.

Sostanzialmente, Daggett puntualizza che i problemi sono tutti dell’ILWU (International Longshore and Warehouse Union), sindacato dei portuali della West Cost, alle prese in questi giorni col tentativo di assicurare il codice 24/7, cioè attività lavorative h24, 7 giorni su 7.

La democrat Carolyn Bourdeaux crea legge bipartisan

Al cospetto di non indifferenti nodi sindacali, secondo alcuni addirittura insormontabili, il Rapporto confezionato dalla Casa Bianca va comunque al cuore della questione.

Vulnerabilità individuate dall’Amministrazione Biden nella supply chain globale, ma declinata in chiave statunitense, sono: insufficiente capacità produttiva Usa; incentivi disallineati e breve termine nei mercati privati; politiche industriali adottate dalle nazioni alleate, partner e concorrenti; concentrazione geografica nel sourcing globale; coordinamento internazionale limitato.

Lungo una disamina che per 250 pagine scava nel profondo, ce n’è abbastanza per farsi più di un’idea. L’Amministrazione Biden, però, non si ferma qui e, il 6 ottobre scorso, introduce una novità normativa: un atto bipartisan sulla catena di approvvigionamento. Con i rappresentanti Robin Kelly (democratica) e Adam Kinziger (repubblicano), ad introdurla è la deputata Carolyn Bourdeaux (democratica), rappresentante il VII distretto congressuale della Georgia al 117° Congresso.

Oggetto della legge? All’interno del Dipartimento del Commercio, la creazione di un ufficio per la resilienza della catena di approvvigionamento e la risposta alle crisi, così da monitorare le catene di approvvigionamento di beni e materiali critici, pianificare e rispondere alle interruzioni della catena stessa.

Per gli Usa, bassi salari e opportunità ALS

Fin qui la necessità di spazio vitale per produzione e commercio a Stelle e Strisce: ma in quale condizione è il giardino di casa messicano? Secondo alcuni, il suo legame commerciale con gli Usa vige sostanzialmente sui manufatti. Ciò nonostante, dall’inizio del XXI secolo, viene sottolineato un suo discreto sviluppo nei servizi. Non sono poche le società d’intermediazione che decantano le convenienze del trasloco di tutta o parte delle attività di aziende statunitensi in Messico: dai diritti di proprietà intellettuale ultra-protetti – grazie all’accordo UMSCA – ai costi di manodopera esigui.

In realtà, oltre a confini che si toccano, l’autentico beneficio sarebbe l’economia a basso costo. Un occupato qualificato messicano vale quanto un lavoratore di base negli Usa. Grazie all’accordo ALS (Accordo di libero scambio) a cui ha aderito il Messico, inoltre, produttori statunitensi che si stabiliscano in quel territorio avrebbero opportunità di accesso a più mercati di altri paesi. Gli ALS permettono la reciproca apertura dei mercati tra paesi sviluppati ed economie emergenti, questo grazie a concessioni di accesso preferenziale. Con la Ue, ad esempio, il Messico ha raggiunto l’accordo nell’aprile 2018; il nuovo accordo, una volta ratificato, sostituirà l’attuale patto globale UE-Messico, in vigore dal 2000.

Dopo il fallimento del Dragon Mart Cancún, cosa fa Pechino?

Nearshoring, dunque, direzione Messico: ma, venendo da dove? Dall’estremo Oriente, in genere. Dalla Cina, in particolare.

Un’alta percentuale di aziende manifatturiere Usa, infatti, per quasi un ventennio ha lì delocalizzato attività e servizi; costo del lavoro basso ed una legislazione conveniente le ragioni. Cina e Stati Uniti, in sostanza, nel tempo si sono affermati in affari come ottimi partner strategici. La prima, pescando abbondantemente nell’oceanico bacino di consumatori; i secondi, usufruendo di linee produttive quasi in “saldo” costante.

Da qualche anno non è più così e, pur ritenendo in parte veritiere le crescenti tensioni tra i due Paesi, l’aumento dei salari cinesi (più che raddoppiati dal 2008 al 2019) ed il gioco dei colli di bottiglia nel trasporto merci hanno iniziato a minare l’affiatatissimo pas de deux.

In queste condizioni, scegliere il Messico a sfavore della Cina comporta conseguenze sensibili. Intanto, è bene sapere che lo stato del Centroamerica è già nei radar di Pechino, che pesa quell’interlocutore per il suo rapporto con gli Usa e non certo per la sua economia o società. Al governo della Repubblica Popolare, infatti, ancora brucia il fallimento del Dragon Mart Cancún, complesso commerciale da 180mln US$, annunciato nel 2011 e, all’epoca, ritenuto futuro centro delle sino-esportazioni in America Latina: 2500 imprese cinesi su oltre 565 ettari, alle porte della cittadina dello Yucatan che si affaccia sul Mar dei Caraibi, con oltre 5mila posti di lavoro per i messicani. Le quote erano così ripartite: 60% agli investitori locali, il 40% alla Chinamex, una società privata del Ministero del Commercio di Pechino.

Bizzarro mix di veti. Sullo sfondo il controllo dei cartelli

Il Dragon Mart Cancún non sorgerà mai, abortito sotto la scure degli ambientalisti e, soprattutto, per un bizzarro mix di veti avversi, sociali ed economici, che all’epoca hanno fatto cartello.

Cartello: termine che incombe come un macigno sul cortile di casa degli Stati Uniti. Quel macigno può pesare nel nearshoring?

Se per cartello s’intende gruppo criminale organizzato, è altamente probabile. Secondo la più aggiornata mappa dell’UIF (Unidad de Inteligencia Financiera), che attenziona soprattutto reati finanziari – dal riciclaggio di denaro al finanziamento del terrorismo – ammontano a 19 le organizzazioni criminali di alto profilo in Messico. Almeno due sono di livello internazionale ma, a ruota, queste sono seguite da un quintetto di tutto rispetto, per portata operativa e ventaglio di attività. Tra loro, Cártel de la Unión Tepito, Cártel de Tláhuac, Los Viagra, Cártel de Noreste, Cártel Independiente de Acapulco, Los Rojos e Guerreros Unidos, ​​Cartello del Golfo, Los Zetas, Familia, Los Beltrán Leyva, Cartello Santa Rosa e Fuerzas Antiunión.

Indubbiamente, però, leaders più o meno incontrastati rispondono ai nomi del CJNG (Jalisco Nueva Generación), la Familia Michoacana, il cartello di Sinaloa.

Tra varie attività delinquenziali, ciò significa spietato controllo del territorio, grazie ad una dislocazione organizzativa paramilitare quasi capillare. Quindi, sebbene fare nearshoring in Messico accorci di molto il trasporto di qualunque articolo verso gli Stati Uniti e viceversa, risulta difficile credere che risulti conveniente attuarlo via terra. D’altra parte, la capienza delle grandi navi containers permetterebbe spostamenti più agevoli di enormi masse di materiali.

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Mex Ports, secondo il World Factbook della CIA

Allora, comprendere su quali territori si trovino i porti messicani che si affacciano sui due oceani dovrebbe rappresentare un punto dirimente sotto il profilo della logistica, ovvero di una logistica di sicurezza.

A questo fine soccorre il World Factbook della CIA che, al 31 dicembre 2019, indica per il Messico i seguenti approdi: tra i porti maggiori, Altamira, Coatzacoalcos, Lazaro Cardenas, Manzanillo, Veracruz; tra i terminali petroliferi, Cayo Arcas terminal (piattaforma a largo dell’Atlantico) e Dos Bocas Terminal, sempre sul versante Est; porti turistici, Cancún, Cozumel, Ensenada; porti per container sul Pacifico, Ensenada, Lazaro Cardenas, Manzanillo e, sull’Atlantico, Veracruz; terminali per gas naturale, Altamira ad Est ed Ensenada ad Ovest.

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Aree altamente sensibili, dunque, come molte altre. Luoghi che, per un disegno volto alla ripianificazione della filiera produttiva, richiederanno svariate misure ed ingaggi ad hoc. Da quel che viene offerto da “fonte aperta” e, soprattutto, che appare trattato in chiave di white literature, si dischiudono già numerose considerazioni.

La presenza di una forte economia “non convenzionale”, regolata, radicata, duratura, qui dovrebbe incrociarsi con un diverso sviluppo. Fratellanze tra eserciti di cartelli, contiguità di loro rapporti con fette di popolazione e vertici di più livelli istituzionali, connessioni finanziarie sempre in grado di spostare e trasformare capitali da attività lecite ed illecite, tutto questo è il banco di prova del giardino di casa degli Stati Uniti: il Messico, una società che – secondo alcuni – vedrà garantito dall’USMCA l’ingresso ad un mercato di 500mln d’individui.

Nearshoring? Altro che! Roba da far impallidire persino il più cinese dei cinesi. Intanto, per Washington sarà dura corroborare la sfera d’influenza sul suo house garden. Non sarà tutto “Messico e nuvole”. Il rischio è che finisca come in un verso della nota canzone: questo è un amore di contrabbando.

Ultimo Aggiornamento: 10/11/2021 08:37