Le sanzioni alla Russia sono davvero il massimo della “potenza di fuoco” che l’Occidente può opporre alla minaccia di Vladimir Putin? Dati alla mano, l’interrogativo trova una risposta decisamente poco convincente e i numeri restituiscono l’istantanea di debolezze che consentirebbero a Mosca di procedere dritta per la sua strada (senza perdere troppi centimetri della sua influenza commerciale su importanti aree del mondo).
Sanzioni alla Russia: i dati rivelano la debolezza della strategia occidentale contro Putin
Il tema delle sanzioni a carico della Russia, nella guerra parallela che si combatte sul fronte economico dopo l’aggressione di Mosca ai danni dell’Ucraina, è oggetto di continue rimodulazioni e di un certo scetticismo “interno” in Occidente. Non tutti sarebbero convinti della loro reale efficacia per neutralizzare i propositi offensivi del Cremlino, e questo scenario sarebbe supportato da una serie di evidenze analitiche piuttosto semplici: i numeri.
A fare il punto della situazione su come stiano andando davvero le cose, nella risposta occidentale da opporre alla dialettica (militare) russa, è il report diffuso da ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) nel sesto numero di DataLab, che analizza in profondità le attuali declinazioni geopolitiche e l’assetto internazionale in costanza del conflitto nell’Europa orientale.
Sullo sfondo una prima fotografia della situazione: la Federazione russa ha la possibilità di allargare le trame delle sue relazioni commerciali con i Paesi che non hanno aderito alle sanzioni, e questo perché assente una condanna unanime della sua condotta. Per una porta che si chiude in Occidente, in pratica, Putin ne vedrebbe almeno un’altra socchiudersi, o addirittura spalancarsi, in altre parti del pianeta.
Le sanzioni occidentali alla Russia “non sono a prova di proiettile“
Nell’annunciare le sanzioni a carico della Russia di Putin – ormai arrivate al quinto pacchetto -, Europa, Regno Unito e Stati Uniti hanno spesso parlato di azioni “senza precedenti”, con un presunto bagaglio di ‘danni collaterali’ capaci di aggredire e demolire l’economia e la tecnologia di Mosca.
Nella realtà, però, i risultati non sarebbero affatto tradotti nelle più forti mosse possibili da parte dell’Occidente, come rivelano i dati diffusi da ISPI secondo cui le sanzioni “non sono a prova di proiettile“.
Ora più che mai la strategia occidentale avrebbe rivelato il suo tallone d’Achille e il Cremlino avrebbe ben più di una “scappatoia” per mitigare o aggirare i ‘colpi’ pensati per aggredire le sue tasche e impedire che abbia ancora risorse per finanziare la guerra.
Sanzioni alla Russia, chi aderisce e chi no: i numeri che raccontano una storia diversa
Secondo l’analisi riportata da ISPI, attualmente soltanto il 19% degli Stati, su scala mondiale, ha aderito all’imposizione di sanzioni contro la Russia. Una percentuale che lascia aperti ampi orizzonti perché la politica di Putin possa rivolgersi altrove per salvare la sua economia dal piano occidentale.
Una delle debolezze di quest’ultimo risiederebbe proprio nell’assenza di sanzioni “secondarie”, cioè rivolte ai Paesi che, non sanzionando Mosca, continuano a farvi affari. Numeri alla mano, quindi, al Cremlino resterebbe un margine di manovra considerevole se si pensa che quel 19% di Stati che hanno imboccato la via delle sanzioni rappresenta il 59% dell’economia globale: ai russi resterebbe aperto ancora il restante 41%.
Ed è così che buona parte dell’export russo trova un canale di sbocco non trascurabile verso India e Cina. I numeri, quindi, raccontano una storia diversa rispetto all’istantanea di una Russia “isolata” dal resto del mondo e stretta in un “vicolo cieco” economico per assenza di interlocutori. Che ci sono, e restano.
Quanto perde Mosca sulle esportazioni
Tra le sanzioni imposte dalla Ue, c’è anche il divieto di importazioni dalla Russia di prodotti come acciaio e ferro, all’orizzonte anche il carbone (ma non subito), legno, liquori e prodotti ittici per un totale di circa 15 miliardi di dollari, mentre Stati Uniti e Regno Unito puntano soprattutto sui prodotti energetici.
Secondo l’analisi, però, tutto questo produrrà al massimo un taglio del 7% all’export russo rispetto allo scenario pre-bellico. E questo al netto di tutti i movimenti con cui Mosca potrebbe dirottare una parte delle esportazioni – precedentemente destinate in Occidente – verso altri Paesi al di là del mosaico di quelli oggi giudicati “ostili” dalla linea del Cremlino.
Quanto perde Mosca sulle importazioni e sulla presenza di imprese estere
Nel mosaico di sanzioni alla Russia anche limiti anche a ciò che può importare dai Paesi occidentali, come sottolineato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, con lo scopo di colpire Mosca nei settori in cui è più fragile, su tutti quello delle tecnologie.
Questo embargo, spiega ISPI, colpisce anche i governi che impongono le sanzioni e per un nitido motivo: limita le proprie imprese esportatrici. Ecco perché la percentuale di blocco delle esportazioni occidentali verso la Russia (tra prodotti ad alta tecnologia e di lusso) incide al massimo sul 12% delle importazioni complessive russe. Il peso specifico di questa misura sarebbe quindi alquanto ridotto.
Per quanto riguarda la presenza di imprese private estere in territorio russo, nessun Paese al mondo ha posto limiti realmente stringenti e oggi chi lascia la Russia lo fa solo per questione morale (o politica) e non legale.
Ad oggi, riporta ISPI, quasi 500 imprese straniere avrebbero annunciato ritiro o sospensione delle attività nel Paese, un numero pari al 63% del totale delle imprese censite finora (773) dalla Yale School of Management. Allo stato attuale, il 17% avrebbe deciso di restare, il 12% di prendere tempo prima decidere e l’8% solo di ridurre la propria attività.
Il grafico elaborato da ISPI sulla base dei dati Yale mostra plasticamente come le imprese cinesi abbiano deciso di rimanere in Russia in 3 casi su 4. L’Italia e la Francia, a differenza di chi ha usato il pugno più duro contro la Russia – come Canada, Regno Unito e USA – hanno tenuto una linea di “non disimpegno” piuttosto vicina alla Cina.