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Testa o croce. I sistemi elettorali “winner takes all” hanno ancora un senso?

Pubblicato: 05/11/2024 17:58

Il sistema per l’elezione del presidente degli Stati Uniti si basa su 51 competizioni diverse nei 50 Stati e nel Distretto di Columbia, in cui, eccetto rare eccezioni, chi vince prende tutti i “grandi elettori”. Alla fine, non conta chi ottiene più voti popolari, ma chi raggiunge i 270 grandi elettori. Gli Stati più popolosi assegnano più elettori, ma il sistema favorisce i piccoli Stati, che hanno proporzionalmente più grandi elettori.


Il fatto stesso che si parli di “swing States”, cioè di Stati in bilico, implica che la gran parte invece non lo è: per storia o evoluzione sociale e demografica, l’America ha Stati dove i Repubblicani vincerebbero anche candidando uno spaventapasseri e Stati dove lo spaventapasseri può essere Dem. In quegli Stati, gli elettori dei partiti in minoranza hanno un basso incentivo persino a esercitarlo il loro voto. Questo sentimento di inefficacia del proprio voto dilaga ormai, e non a caso le campagne elettorali oggi sono sempre più un appello al proprio elettorato a votare, più che un tentativo di convincere per “chi” o “cosa” votare.
Il vantaggio di tutto questo è davvero la governabilità? Ma è davvero più governabile un sistema in cui qualsiasi governo è di fatto considerato illegittimo da metà o più della popolazione, dei suoi corpi intermedi, del suo tessuto culturale.


La percezione di illegittimità dei governi eletti si riflette nel continuo scontro tra istituzioni e livelli di governo, al punto che l’ambizione suprema di ogni presidente è condizionare con le sue nomine sempre più partigiane il guardiano della Costituzione: la Corte Suprema.
Solo l’America è in queste condizioni? No, perché la polarizzazione ormai è un tratto di tutte le società contemporanee. Eppure, grazie ai sistemi elettorali proporzionali, la gran parte dei Paesi europei riesce in qualche modo a sfuggire al dominio delle “estreme” sul sistema politico. L’eccezione maggiore al proporzionale, la Francia, usa il doppio turno per moderare le forze centrifughe, altri si affidano a parlamento nazionali e regionali che registrano la pluralità e la compongono in governi e programmi di coalizione. I governi sono forse più deboli, ma la democrazia resta con ogni probabilità più solida.


E l’Italia? Una miseria pietosa, con sistemi elettorali diversi per ogni livello di governo, uniti solo da un principio: prendere il peggio del sistema uninominale e il peggio del sistema proporzionale e montarli insieme. La sbornia da uninominale degli Anni Novanta – con cui sognavamo di avere i nostri Blair e Clinton, o Thatcher e Reagan – ha portato a ammucchiate pre elettorali amorfe, satrapie locali, coalizioni dominate dai propri populismi interni e graduale e costante allontanamento degli elettori dalla politica. Il governo e la politica sono diventate due attività tanto distanti da apparire inconciliabili, perché per vincere occorre tendenzialmente urlare e lanciare mirabilia, mentre per governare occorre tener conto dei sempre più stringenti e soffocanti vincoli di realtà. Il risultato è un ordigno esplosivo. Intanto, tra poche ore, in America tirano la monetina.

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