
Era il martedì grasso del 5 marzo 2019, giorno di festa per tanti bambini, ma diventato per sempre una ferita aperta per chi ha vissuto da vicino la tragedia di via Indipendenza, a Bologna. Quel giorno, durante la sfilata di Carnevale, un bimbo di appena due anni, Gianlorenzo, è precipitato dalle braccia della madre Siriana Natali, cadendo dal carro sul quale si trovavano. Il piccolo venne travolto dal mezzo stesso: morì il giorno dopo in ospedale, dopo ore di tentativi disperati dei medici.
Iniziò subito un processo lungo e doloroso, anche per la madre del piccolo, finita imputata per omicidio colposo. La giustizia, però, ha parlato con chiarezza: Siriana è stata assolta, con una sentenza che ha riconosciuto la complessità e l’imprevedibilità dell’incidente. La responsabilità, secondo il tribunale, è ricaduta su Paolo Castaldini e don Marco Baroncini, membri dei comitati organizzatori della sfilata, condannati per le gravi lacune nelle misure di sicurezza.
Ma fuori dall’aula, sui social, la sentenza non è mai arrivata. Anzi, per Siriana il processo continua ogni giorno, in un’aula virtuale dove chiunque può emettere un verdetto, senza conoscerne i fatti, senza esserci stato, senza pietà. Accuse, insulti, minacce: un’ondata d’odio che continua a travolgere una madre già spezzata dal dolore, una donna che ha vissuto la tragedia più innaturale per un genitore.
Giuseppe Manchisi, padre del piccolo Gianlorenzo, oggi è stanco e ferito da questi attacchi. Ma non esita a difendere Siriana, la madre di suo figlio: «Quelle persone non erano lì quel giorno. Come fanno a sapere cosa è accaduto? Se non lo sanno, tenessero la bocca chiusa», ha dichiarato, annunciando anche possibili denunce per diffamazione contro chi continua a infangare il nome della donna.
Manchisi non cerca vendetta, ma giustizia per la memoria del figlio e per la dignità della madre. E in questo scenario, la storia di Siriana diventa un simbolo inquietante del modo in cui i social media possono trasformarsi in un tribunale sommario, alimentando dolore anziché comprensione.
A sei anni da quel giorno, la giustizia ha chiuso il caso, ma per molti, la lezione più grande resta ancora da imparare: quella del rispetto, del silenzio davanti a un dolore che non può essere spiegato, né tantomeno giudicato.