
Una vacanza in Kenya si è trasformata in un incubo per Simona Colosini, 47 anni, originaria di Calvisano e impiegata presso il Monte dei Paschi di Siena nella filiale di Mantova. Nella notte tra il 14 e il 15 dicembre, la donna è stata vittima di una violenta rapina a Watamu, durante la quale ha riportato una ferita alla spalla, procurata con un machete. Un’aggressione brutale, dalla quale è uscita viva solo per un caso fortuito, e che l’ha segnata profondamente.
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«Quella sera — racconta Colosini — io e un altro ospite del villaggio siamo andati a ballare. Al ritorno, a piedi, ci hanno attaccato tre uomini con dei machete. Erano i marinai che la mattina ci avevano accompagnati in una gita in barca». Mentre l’amico è riuscito a fuggire, lei si è trovata sola ad affrontare i tre uomini armati. Nonostante avesse subito offerto i suoi averi, la violenza non si è fermata. Uno degli aggressori, riconoscibile per i rasta biondi, l’ha ferita alla mano tagliandole il marsupio, le ha strappato un braccialetto e le ha puntato un machete al basso ventre, in attesa dell’assenso del capo per colpirla. Fortunatamente, il capo ha fatto cenno di no.
Approfittando di un attimo di distrazione, la donna è riuscita a fuggire, ma mentre correva è stata colpita alla schiena con un machete. «Se mi avesse colpito al collo, sarei morta dissanguata. Mi ritengo una miracolata», ha dichiarato. Dopo le prime cure in una struttura sanitaria privata locale, Colosini è rientrata in Italia, dove è stata ricoverata all’ospedale di Manerbio per stress da trauma.
Il ritorno in Kenya e l’incontro con l’aggressore
Nonostante lo shock e la paura, Colosini ha deciso di tornare in Kenya. Il 24 marzo, insieme al compagno, è partita da Malpensa ed è atterrata a Mombasa. La motivazione era chiara: cercare giustizia. Non lontano dal Rafiki Village, dove avevano soggiornato l’ultima volta, ha riconosciuto uno degli aggressori: il capo della banda. Ha tentato di inseguirlo, ma lui è fuggito. Tuttavia, grazie all’intervento di un mediatore che ha tradotto dal swahili, la vittima è riuscita a incontrarlo.
Si chiama Paul, ha circa trent’anni e, secondo quanto riferito, vive in una situazione di estrema povertà. «Mi ha raccontato di aver perso la moglie e di vedere a fatica i suoi due figli, perché non ha un lavoro», ha spiegato Colosini. È stato lui, quella notte, a impedire al complice di colpirla mortalmente. Colosini, colpita dalla sua storia, ha deciso di perdonarlo e di offrirgli una possibilità: ha promesso di pagargli un corso di italiano affinché possa lavorare nel settore del turismo.
La tempesta sui social: insulti e accuse
Il gesto di perdono non è passato inosservato. Ma ciò che avrebbe potuto essere letto come un atto di grande umanità e coraggio si è trasformato in un caso mediatico carico di odio e pregiudizi. Sui social, l’episodio ha scatenato una valanga di insulti, molti dei quali a sfondo sessuale, razzista e politico.
Tra i commenti, c’è chi ha insinuato un intento propagandistico legato alla politica italiana: «Se l’aggressore fosse stato italiano, ci sarebbero state mobilitazioni contro il patriarcato. Ma siccome è africano, va bene così». Altri commenti, più velenosi, ironizzano: «A quando le nozze?».

La risposta dell’avvocato e il gesto solidale
Di fronte a questa ondata di odio, l’avvocato di Colosini, Gianfranco Tripodi, ha annunciato l’intenzione di procedere per diffamazione: «Sui social non si può essere liberi di insultare. Non tutti hanno le spalle larghe per sopportarlo». Una presa di posizione netta, volta a difendere la dignità della sua assistita e a contrastare la violenza verbale online.
Lontana dai riflettori e dalle polemiche, Colosini ha dichiarato che, nel caso di un eventuale risarcimento per i danni d’immagine, utilizzerà i soldi per aiutare i bambini kenioti: «Comprerò riso, farina e materiale scolastico, e li porterò di persona». Un gesto che chiude il cerchio di una vicenda che intreccia violenza, perdono, senso di giustizia e solidarietà.
Tra trauma e compassione, una storia che divide
La vicenda di Simona Colosini solleva interrogativi profondi sul limite del perdono, sul ruolo dell’informazione e sull’utilizzo dei social come strumento di giudizio. È la storia di una donna che ha subito una violenza brutale, ha trovato la forza di ritornare sul luogo dell’aggressione, ha cercato i suoi assalitori non per vendetta ma per giustizia, e ha finito per essere attaccata pubblicamente per una scelta personale. Un gesto che divide e fa discutere, ma che, nel bene o nel male, racconta una realtà complessa e profondamente umana.