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Stiamo mangiando l’Amazzonia: ancor più degli incendi, è la soia a distruggerla

Pubblicato: 14/09/2019 10:10

La più grande minaccia dell’Amazzonia non sono solo gli incendi in sé ma, come è noto, l’uomo che li appicca e risalendo a monte della risposta che verte sul perché l’uomo appicca incendi nel Sud America, principalmente la risposta è una: smania di deforestazione dietro alla quale, il più delle volte si nasconde la soia. Un fagiolo commestibile dall’alto contenuto proteico ed energetico la cui domanda è in crescita continua da decenni. Se da una parte c’è il Brasile, primo produttore mondiale; dall’altra parte ci sono la Cina e l’Europa, tra i maggiori acquirenti. Fondamentale per riflettere in prima battuta, un dettaglio: nel report redatto dal WWF nel 2014, degli oltre 200 milioni di tonnellate di soia prodotti in Brasile, solamente il 6% è stato destinato al consumo umano. In che modo allora ci stiamo mangiando l’Amazzonia?

La monocoltura in continuo aumento che deforesta l’Amazzonia

La monocoltura della soia sta contribuendo a distruggere l’Amazzonia. La forte domanda del mercato e le politiche sicuramente non troppo attente all’ambiente di Bolsonaro – che sta contribuendo nefastamente all’accelerazione del fenomeno – sono concause complici di una distruzione che spaventa più degli incendi i quali non possono che essere descritti come sintomi.

Quello che sta accadendo ormai da 30 anni a questa parte in Brasile lo ha descritto come estrema capacità di sintesi lo studioso Tony Weis: grain-oilseed-livestock complex, nient’altro che un sistema che collega la massiva produzione di cereali (principalmente mais) e di soia volta a soddisfare il fabbisogno energetico degli animali negli allevamenti intensivi sotto forma di mangime proteico per ingrassare animali che verranno a loro volta macellati per finire sulla nostra tavola.

Soia = mangime: il devastante mercato in crescita da decenni

La carne sì, inquina più della plastica e non è una teoria architettata a tavolino da sette vegetariane o vegane del caso ma un dato di fatto. Per produrre la carne serve necessariamente crescere un numero sempre più cospicuo di animali che a loro volta, per crescere, hanno bisogno di mangime composto principalmente da cereali e per l’appunto, da soia.

Non volendo entrare nel merito di quanto, in termini ambientali ed energetici, possa costare un kg di manzo, anche solo rimanendo concentrati sulla monocoltura del fagiolo la situazione appare chiaramente allarmante e l’Italia non è uno Stato che non figura tra coloro che continuano ad importare tonnellate e tonnellate di soia annualmente.

Italia: l’importo annuale si aggira attorno a 1,3 milioni di tonnellate

Secondo le stime riportate da l’ Internazionale, annualmente l’Italia importa circa 1,3 milioni di tonnellate di soia e di questa, la metà arriva solo ed esclusivamente dal cuore del Brasile. Principalmente dal Mato Grosso ormai interamente raso al suolo per la monocoltura della soia ma la tendenza – in deciso aumento – sta portando ad estendere la monocoltura verso nord e sempre più dunque, verso l’Amazzonia della quale il 19% del terreno – secondo quanto riferito da Romulo Batista, responsabile delle foreste di Greenpeace Brasile all’Internazionale – sarebbe già stato disboscato.

Legno, incendi, allevamenti e poi la soia

Il disboscamento generalmente avviene per fasi: una prima in cui la foresta viene letteralmente rasa al suolo e il suo pregiato legno esportato. Quello che rimane viene bruciato trasformando terra fertile come quella amazzonica in terreno arido che necessita di essere rivitalizzato. Ecco arrivare dunque, come spiega L’Espresso, proprio sui quei terreni, gli animali: principalmente i manzi. Rivitalizzato, è il momento della semina e della soia che viene per lo più importata: il 46% destinato alla Cina, il 19% all’Europa che dal Brasile ricava oltre il 40% della soia che importa totalmente nell’anno.

Le politiche avverse

Per quanto riguarda più nello specifico la Cina, e più in generale l’Asia arriva da una secolare cultura della soia. Con l’insediamento di Trump e l’inasprimento dei Dazi nei confronti di Pechino, l’alta domanda ha dovuto cercare un altro luogo da cui attingere, per l’appunto, anche in questo caso, il Brasile. Parlando invece dell’Europa e in particolare dell’Italia, la zona che più attinge dalle casse di soia del Brasile è la pianura Padana dove numerosi sono gli allevamenti intensivi di animali e dove il fagiolo giunge prevalentemente sotto forma di macinato e quindi mangime. Tra gli animali che più consumano soia troviamo in cima polli, galline, tacchini e maiali.

La domanda sempre alta di mangime e quindi di soia (che è utilizzata anche per produrre olio da cucina e biodiesel) ha come conseguenza diretta milioni di ettari di foreste – si calcola che in Brasile sia dedicata alla monocoltura della soia un’area che comprende Francia, Germania, Belgio e Paesi Bassi insieme – disboscate e convertiti in terreni. Oltre un milione di km quadrati di coltura per soddisfare una domanda che dagli anni ’50 è aumentata di 15 volte. L’Amazzonia brucia sì, ma la stiamo anche mangiando.