
Una sfida provocatoria e necessaria lanciata al cuore di uno dei tabù italiani più resistenti: il mito dell’antifascismo come certificato di superiorità morale. E’ la missione del nuovo libro di Antonio Padellaro “Antifascisti immaginari” (edizioni PaperFirst, 2025), volume che descrive a affronta un viaggio ironico e severo attraverso il mondo degli intellettuali, giornalisti e politici che hanno trasformato la memoria della Resistenza in una liturgia, troppo spesso, autoreferenziale.
Padellaro muove il suo ragionamento dal racconto di un’ipocrisia diffusa. “Se mi chiedete cosa sia per me l’antifascismo, rispondo: la cella del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo in via Tasso,” scrive Padellaro nelle prime pagine, fissando da subito il discrimine fra il coraggio autentico di chi si opponeva (pagando con la vita) ai nazifascisti e la retorica a buon mercato. La memoria della Resistenza, per l’autore, non può essere ridotta a un mestiere da talk show, a una gara tra indignati seriali che vedono “facce da Ventotene” ovunque. Il riferimento è alla polemica innescata dalla premier Giorgia Meloni sui valori della democrazia, espressi dagli antifascisti confinati sull’isola pontina durante il ventennio mussoliniano.

L’Italia di oggi, secondo Padellaro, assiste a un paradosso grottesco: “Il fascismo viene ricreato sul palcoscenico per alimentare un antifascismo altrettanto fasullo, visto che non costa più nulla. Anzi, conviene”, osserva con ironia. In questo meccanismo, i veri antifascisti rischiano di essere dimenticati, schiacciati sotto il peso di una rappresentazione che serve più alla costruzione di carriere che alla difesa degli autentici valori democratici. Secondo i dettami di una società dello spettacolo applicata alla memoria. Rifacendosi a Guy Debord, filosofo cineasta che criticò la società dello spettacolo(intuì profeticamente le problematiche della società di massa contemporanea), Padellaro mostra come oggi “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in rappresentazione”. Fascismo e antifascismo diventano quindi merci da esporre, strumenti di marketing politico e culturale. E il risultato è devastante: “Nella scena attuale, fascismo e antifascismo immaginari – dice l’autore – si sfidano sui giornali, in tv e attraverso i social, sostenendosi a vicenda nella caccia agli ascolti, conferendosi un reciproco alibi rispetto alla reciproca inconsistenza”.
In questo gioco al ribasso, anche eventi drammatici come la Giornata del Ricordo delle foibe (si celebra il 10 febbraio in ricordo dei massacri delle foibe e dell’esodo dagli italiani dalla regione Giuliano-dalmata, durante e subito dopo la Seconda guerra mondiale) vengono lasciati alla destra, “in un’imbarazzante assenza della sinistra, incapace di superare i propri riflessi condizionati”. Evidenziando il valore del ravvedimento e quello di una lezione dimenticata, Padellaro recupera la figura di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo come emblema di un antifascismo autentico, nato proprio dal ravvedimento e dal sacrificio. “Il ravvedimento è una trasformazione della mente”, ricorda l’autore citando la Bibbia, e sottolineando come Montezemolo, pur provenendo da ambienti monarchici e tradizionalisti, scelse di combattere contro il nazifascismo e di morire per la libertà: ufficiale dell’esercito fu poi comandante del Fronte militare clandestino, ucciso nel marzo del 1944 alle Fosse Ardeatine; Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
Un monito, quello di Padellaro, contro la deriva manichea e moralista di chi oggi “crede che l’ironia non sia un momento socratico dello spirito, ma si usi soltanto nei salotti”, come già denunciava la scrittrice Vittoria Ronchey negli anni Settanta contro i “marxisti immaginari”, raccontando quel dirompente ingresso dell’ideologia e della politica nelle aule scolastiche. Nè può non essere ricordato come – nel gennaio 1987 sul Corriere della Sera – Leonardo Sciascia firmò un articolo intitolato “I professionisti dell’antimafia”, dedicato al rapporto tra politica, popolarità e lotta alla mafia. A fornire lo spunto all’intellettuale siciliano era stato un libro di Christopher Duggan, allievo di Denis Mack Smith, che raccontava la parabola di Cesare Mori, prefetto in Sicilia dal 1924 al 1929 e definito il castigamatti della mafia. Sciascia aveva già trattato l’argomento nel suo “Il giorno della civetta”, esprimendo una tesi lapidaria: riconosceva i successi di Mori, ma faceva intendere come una certa antimafia, adoperata con abilità e spregiudicatezza, potesse diventare un formidabile strumento di potere, perdendo il suo scopo primario e arrivando addirittura a non rispettare le regole.
Quella di Padellaro è dunque una denuncia che non fa sconti: non risparmia nessuno. Non il mondo culturale che esibisce antifascismo “misurando con il goniometro il braccio teso di Elon Musk o di qualche nostalgico da baraccone”; né la destra che “rimuove le proprie radici per convenienza, salvo inciampare continuamente nei propri fantasmi”. Conseguente poi il riferimento, con sarcasmo, alla scena politica contemporanea, in cui “ministri e viceministri si fanno infinocchiare dalle amanti o fermano d’autorità i treni in aperta campagna”, alimentando l’idea che stare all’opposizione sia oggi “il miglior lavoro del mondo”. E ricorda, amaramente, che figure come Giacomo Matteotti o Salvo D’Acquisto (anch’essi massacrati dai fascisti) meriterebbero ben altra memoria rispetto agli slogan usa-e-getta agitati nei dibattiti tv.
Un libro che sta già facendo discutere. “Antifascisti immaginari”, scritto con un tono amichevole ma affilato, riesce a essere profondamente politico senza mai essere ideologico. Attenzione: non si tratta di un invito a “dimenticare” il fascismo, ma a difendere la memoria autentica da chi la usa come clava o come passaporto per la visibilità. Un lavoro che non si limita a fotografare il presente, ma che lancia un grido necessario: “La storia si onora solo vivendola, non recitandola”.