Giovanni Padovani in aula e durante gli interrogatori si è contraddetto, ha confessato l’omicidio ma cercando di “spostare l’attenzione su altri profili” e descrivendo “un contesto confacente con un suo raptus improvviso”. E in generale, durante il processo, ha mantenuto un “atteggiamento selettivo tale da ritenere come, da un lato, fosse (e sia tuttora) pienamente in grado di distinguere lucidamente le situazioni capaci di arrecargli un pregiudizio o un vantaggio processuale e, dall’altro, come le sue dichiarazioni non appaiano sempre affidabili”.
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Così la Corte d’Assise di Bologna ha oggi motivato la sentenza nei confronti dell’ex calciatore 28enne. “È improprio attribuire l’omicidio ad una insana gelosia dell’imputato, la quale, semmai, costituì il movente del delitto di atti persecutori, mentre l’omicidio fu motivato da un irresistibile desiderio di vendetta, uno tra i sentimenti più irragionevoli, eppure imperativi”. Secondo la corte, un vero e proprio “delitto d’onore”. Per l’omicidio di Alessandra Matteuzzi, Padovani è stato condannato all’ergastolo.
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Le motivazioni della sentenza
Secondo i giudici Padovani era indirizzato verso un vero e proprio “proposito vendicativo” nei confronti dell’ex compagna Alessandra Matteuzzi, 56 anni, “manifestato fin da giugno e nel luglio 2022 con estrema lucidità, come si può cogliere dal richiamo consapevole alle conseguenze di tale gesto ovvero alla possibilità di andare in carcere”.
“Deve ritenersi acquisita la prova che la condotta omicidiaria non sia stata determinata da un mero moto d’impeto – aggiunge quindi la Corte – ma sia maturata e si sia progressivamente radicata negli intenti dell’omicida, sia stata persino preannunciata nelle confidenze fatte a terzi e alla madre nelle annotazioni sul cellulare, e poi attuata secondo un piano predeterminato, comprensivo della scelta dell’arma da usare e del luogo in cui colpire”. Nel processo è emerso “il carattere ossessivo-maniacale delle forme di controllo che l’imputato attuava nei confronti della compagna e come fosse stato spinto da una forza irresistibile, ingenerata da un sentimento di rancore e da un senso di frustrazione, a ritornare a Bologna per assassinarla”.
Secondo i giudici il comportamento dell’ex calciatore durante il processo è stato “una messa in scena“. La Corte ritiene “che le bizzarrie comportamentali dell’imputato, talora anche grossolanamente enfatizzate, seguite sovente da prese di posizione invece consapevoli e responsabili, soprattutto negli snodi decisivi del processo, le risultanze dei test, con risposte sbagliate anche alle domande più banali e infine l’asserzione di una tardiva insorgenza di sintomi psicotici, forniscano indicazioni che sembrano coniugarsi tra loro soltanto nella prospettiva di una intenzionale messa in scena dell’imputata”. Insomma, un omicidio organizzato e maturato con propositi vendicativi nei confronti di Alessandra che aveva come unica “colpa”, il voler vivere una vita serena senza le pressioni dell’ex compagno.
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